La loro funzione innovativa tra impatti economici ed emancipazione sociale
Articolo di Paolo Scaramuccia, Responsabile Politiche di sviluppo locale e cooperative di comunità di Legacoop Nazionale
Nell’ultimo decennio si è andato affermando uno strumento che ha consentito ai cittadini di attivarsi in prima persona per rispondere a bisogni o creare opportunità per il proprio territorio, la cooperativa di comunità, un’impresa (cooperativa appunto) che unisce il dinamismo imprenditoriale con i valori di democrazia, intergenerazionalità e soprattutto mutualità.
Le cooperative di comunità hanno dimostrato in questi anni una forte capacità di riuscire a rispondere ai bisogni dei cittadini e degli altri attori locali, non in una logica assistenziale e volontaristica, ma generando valore attraverso l’occupazione.
Le cooperative di comunità coniugano attività non sostenibili economicamente – ma necessarie per la sussistenza della comunità – con attività sostenibili, ma rivolte ad una platea più ampia, consentendo così di poter erogare servizi ai cittadini stessi. Un sistema multifunzionale che consente di invertire la tendenza allo spopolamento e ridare prospettive future a molte realtà che erano rassegnate al declino. Le cooperative di comunità sono riuscite a mantenere un sistema sociale e ricostruire un sistema economico laddove il mercato non arriva perché scarsamente remunerativo e il pubblico non riesce ad intervenire per mancanza di risorse.
Realisticamente non parliamo di imprese capaci di generare volumi di affari milionari, ma comunque tali da creare occupazione, rigenerazione e valorizzazione delle risorse locali, consentendo spesso a molti giovani di mettere a frutto le proprie competenze e le proprie professionalità all’interno e a vantaggio della propria comunità.
Il fenomeno delle cooperative di comunità si è ovviamente diffuso maggiormente nei piccoli comuni e in particolare nelle aree interne; delle 107 cooperative di comunità censite da Legacoop nel 2023, ben 69 sono quelle nei comuni in area interna e rientranti nel decreto sui piccoli comuni sotto i cinquemila abitanti, spesso in realtà e in comuni davvero molto piccoli.
Ovviamente i più contesteranno l’esiguità del fenomeno se messo a confronto con altre tipologie di impresa, ma qui ci preme sottolineare come l’obiettivo di queste imprese non sia la massimizzazione del profitto per i soci, ma la massimizzazione dell’utilità prodotta per la comunità nel suo complesso.
E allora proviamo ad aggiungere altri dati per definire meglio il quadro di riferimento e provare a dare una prima misurazione degli impatti prodotti.
Le 107 cooperative attive coinvolgono oltre 5.000 soci creando occupazione per 532 persone con un valore della produzione complessivo superiore ai 29 milioni di euro.
Dati che ovviamente non fanno impressione agli analisti finanziari, ma che se letti con la giusta lente d’ingrandimento ci dicono che quei 29 milioni di euro sono quasi tutti prodotti in realtà in area interna, in piccoli comuni, così come le 532 persone occupate di ci parlano di un’occupazione in contesti fortemente svantaggiati, dove sia il mercato che il pubblico si sono ritirati, ma i cittadini, le cooperative hanno non solo mantenuto la posizione, ma hanno rilanciato, investito, creato valore.
Se leggiamo in termini assoluti e asettici i dati possiamo sicuramente dire che una cooperativa di comunità che fattura meno di un milione e occupa 10 persone non è certo un dato particolarmente rilevante, ma se quel dato lo caliamo in un contesto di meno di mille abitanti, principalmente anziani in un’area montana del nostro Appennino, il dato assume tutt’altro rilievo.
Quanto pesa quel valore della produzione in termini di impatti su occupazione, ricchezza prodotta (anche in termini di tasse generate per l’amministrazione comunale), servizi realizzati, indotto creato?
Pensiamo che dietro ogni persona occupata c’è una famiglia. L’impatto di queste imprese su territori così ristretti è paragonabile all’impatto che una grane industria ha su un’area urbana, ma con molte più positività esterne in termini di partecipazione e sostenibilità.
Ma a questa lettura “quantitativa” dei dati è opportuno affiancare anche una lettura qualitativa, che ci fornisca ulteriori informazioni utili alla riflessione.
In un Paese come l’Italia, che sappiamo non è un paese per giovani e neanche per donne, le cooperative di comunità ci restituiscono un dato in forte controtendenza con il resto del Paese: i dati sulla composizione dei consigli di amministrazione delle cooperative di comunità, ci dicono che nel 24% delle cooperative di comunità c’è una presenza di almeno il 50% di donne, e nel 33% dei casi la presenza di donne nei cda è tra il 26% e il 49%, mentre gli under 35 nei cda sono il 13%, presenza che sale al 16% se prendiamo in considerazione gli under 40.
Un dato, quello sulla composizione degli organi di controllo, che non passa inosservato e che ci costringe ad alcune riflessioni. Le cooperative di comunità, probabilmente rispondono ad esigenze occupazionali dei soggetti tradizionalmente esclusi dal mercato del lavoro, ma anche ad un bisogno di emancipazione economica e di conseguenza sociale.
La cooperazione, oggi come alle sue origini dimostra ancora una volta di poter essere un ascensore sociale e uno strumento dinamico, che per la sua natura mutualistica e non speculativa, è in grado non solo di dare risposte ai bisogni delle persone e delle comunità laddove mercato e pubblico hanno fallito, ma anche di svolgere una funzione sociale ed emancipatrice per chi rischia di rimanere escluso e oggi, i giovani e le donne delle nostre aree interne, sono sicuramente tra i cittadini che più di altri rischiano di restare ai margini della nostra società.
Fonte: Fondazione Appennino